giovedì 2 aprile 2020

Studia che poi avrai un buon lavoro

Ma perché? La maggior parte del tempo che passiamo sui libri, lo impegniamo di fatto a imparare nozioni completamente irrilevanti per il mercato del lavoro.

Gli insegnanti spesso vivono in una realtà, quella accademica, che è ben lontana dal mondo delle imprese, dai suoi bisogni, dai suoi ritmi e dalle sue condizioni.

Eppure è evidente come i laureati abbiano una strada preferenziale nelle assunzioni, credo che sia legittimo a questo punto chiedersi cosa cercano le aziende e cosa trovano in questi ragazzi freschi di laurea. Bene io credo che tra le prime caratteristiche necessarie per portare avanti un percorso di studi sia una buona resistenza alla noia e la capacità di "pensare per obiettivi", cioè di raggiungere un obiettivo in qualche modo, facendosi poche domande sulla sua effettiva utilità strategica e quindi di fare ciò che gli viene richiesto, indipendentemente dal fatto che gli piaccia, che lo ritenga veramente utile o che si illuda che ciò sia vero. Ed è proprio questo che moltissime aziende cercano: servi.

Ciò che effettivamente il candidato conosce è poco importante, perché deve solo obbedire al capo e intuire velocemente ciò che il capo gli dice male o parzialmente. Anche questa grande pagliacciata del lavoro di gruppo maschera il fatto, che chi comanda non sia in grado di coordinare (non dico di formare) una squadra, quindi si buttano nel calderone (il gruppo) persone sperando che si coordino tra di loro, quasi magicamente, come un sistema che si equilibra da solo. Anche i gruppi di studio all'università servono a preparare questa condizione. In realtà c'è uno scenario anche peggiore: quando la gerarchia nel gruppo c'è eccome, ma ci sono più capi in competizione tra di loro e il nuovo arrivato deve barcamenarsi nel cercare di capire quale padrone servire, mediare scontentando tutti o accontentarli a turni, ben consapevole degli strali che gli arriveranno dai capi scontenti.

Questo scenario riguarda purtroppo diverse software house italiane. Non sono tutte così, perché grazie al cielo ho avuto modo di confrontarmi anche con gente seria, ma i bravi si possono contare sulle punte delle dita di una mano, mozza di qualche dito, magari.

Difficile anche dire cosa vuol dire "bravo" o "fatto bene", diciamo che il termine andrebbe completato con " per chi ti comanda" o meglio per ciò che gli è stato insegnato svariati decenni prima da un insegnante a scuola o sul lavoro... e il loop continua.

Dubito che in fabbrica o in altre realtà la situazione sia diversa, temo anche che la condizione del lavoratore in ambienti con uno scarso livello di istruzione sia ben peggiore, ma non ho esperienza diretta di quei casi, quindi non me la sento di scriverne qui.

Tornando al tema principale di questo articolo, l'università, credo che rifletta pienamente la media della società in cui ci troviamo e che abbia fallito l'obiettivo di cercare di migliorarla.

Consiglierei senz'altro a un giovane di studiare, proprio perché questi difetti diventano pregi negli occhi di chi dovrà offrirgli uno stipendio e di fatto è un plus notevole avere un titolo di studio, ancora di più se il lavoro sarà statale, perché lo stato non può contraddirsi (troppo) apertamente e premia chi ha obbedito al di là della sua bravura in senso assoluto, che abbiamo visto prima come non esista, quindi lo stato premia con condizioni di lavoro decisamente migliori della media, chi è stato un bravo servo fedele e ha obbedito, dedicando tanti e insostituibili anni della sua vita a fare cose largamente inutili se prese come sono, ma utilissime a dimostrare la propria fedeltà all'esecuzione del compito assegnato.

Altro discorso invece è per chi si porta fuori da questo circo e cerca di risolvere i problemi per gli altri, posto che questi altri si fidino dei propri occhi e non si basino sul giudizio degli altri (certificazioni e titoli) per giudicare il lavoro fatto e in ultima analisi, chi lo ha fatto.

La conclusione sulla strategia migliore da adottare è: scegliere con cura i propri insegnanti, cercando scuole che preparino non tanto al lavoro, quanto a non diventarne schiavi, il che si traduce nella capacità di pensare con la propria testa e nel saper persuadere che ciò che è stato fatto risolve il problema per cui è stato pagato o almeno ha risolto altri problemi, che non erano evidenti all'inizio... La seconda scelta da fare è non lavorare per tutti, ma attorniarsi di gente che ci apprezza e apprezza ciò che facciamo al di là dei titoli. Questo non significa cercare una claque, che ci applauda al di là degli errori che facciamo, perché sarebbe un punto di vista narcisistico e praticamente irrealizzabile, oltre che palesemente ingiusto. Io dico che dobbiamo circondarci di gente che ci permetta di sbagliare, perché lo sbaglio non è un lusso: è uno dei tanti passi necessari per raggiungere il successo. Questo è necessario e stranamente pare non essere considerato dalla società latina nella quale viviamo, dove si incensano i vincenti e si ignorano gli altri. Vorrei veramente conoscere un'azienda che dica "ci hai provato tante volte senza riuscirci, cos'hai imparato dai tuoi fallimenti?" anziché "eh ma questo voto era basso, vabbé era giovane, secondo me puoi sbagliare solo fino ai 18 anni, poi non è più concesso". Il lettore mi creda, l'ho sentito dire veramente, per fortuna non su di me ma su una persona, che avevo proposto per una posizione; quando ci penso ancora mi chiedo cosa avesse fatto in vita sua quel tizio dopo i 18 anni...

Un'ultima cosa: affermare con sicurezza che si posseggono le carte giuste per raggiungere un obiettivo, per prendere un titolo, ma avere scelto di non farlo, generalmente non è creduto... quindi se chi abbiamo di fronte cerca un titolo e non l'abbiamo forse è talmente stolto che non vale nemmeno la pena di convincerlo; possiamo comunque sempre cercare di ottenere quel titolo per convincerlo, se proprio ci teniamo tanto a quel posto, ma forse l'errore è proprio tenerci così tanto.

In questo discorso rimangono fuori i corsi di formazione professionale. Imparare facendo anziché ascoltando. E' così semplice e chiaro che ancora non capisco come si possano sottovalutarli: un corso professionale prepara a fare un compito, quindi se i datori di lavoro proponessero i corsi formativi per i loro obiettivi, questi sarebbero il completamento ideale per un percorso formativo solo teorico. Perché non capiscono che la velocità nell'esecuzione di un compito dipende in larghissima misura, per non dire del tutto, dall'allenamento che si ha ad eseguirlo? Non è che forse il problema dei giovani che non trovano lavoro non è che sono choosy, ma solo che il tessuto produttivo soffre di un'ignoranza sconcertante, proprio perché chi decide ha ricevuto a sua volta un'istruzione inadeguata?




martedì 25 febbraio 2020

Unbreakable

Mi è capitata una discussione  decisamente spiacevole su un tema che oggi dovrebbe essere superato, ma evidentemente non è così: la laicità dell'uso dell'istruzione break per uscire da un ciclo for in Java.

Vediamo un esempio banale di ricerca su un array con uscita quando si trova l'elemento cercato

package com.byteliberi;
import java.util.List;
import java.util.Arrays;

public class Main {

public static void main(String[] args) {
String[] poliArr = {"triangolo", "quadrato", "pentagono", "esagono"};
List<String> poligoni = Arrays.asList(poliArr);
String trovato = "";
for (String poligono : poligoni) {
if ("quadrato".equals(poligono)) {
trovato = poligono;
break;
}
}
System.out.println(trovato);
}
}

L'output è la parola: quadrato

Il codice in esempio non è e non vuole essere un esempio stilistico di come si cerca un elemento in una lista in Java,  però è un modo pratico e veloce per cercare un elemento e uscire una volta trovato.
L'istruzione break, il cui uso in Java è legittimo e non si ottiene alcun warning usandola, provoca un "salto" fuori dal for. C'è chi non accetta questa soluzione e si aspetta da un professionista l'uso del più elegante ciclo while.

Ora, concordo che i salti non siano il massimo dell'eleganza e che possano portare a codice difficile da leggere se si esagera e si annida l'uso dell'istruzione break con l'istruzione continue, però sono soluzioni pratiche. Esistono perché credo che derivino dal linguaggio C, ma sono pericolose per la leggibilità se ne si abusa, in pratica non creano problemi di affidabilità del codice.

L'uso del while ha un piccolo inconveniente, che lo rende meno pratico, vediamo la nuova versione:

package com.byteliberi;
import java.util.List;
import java.util.ListIterator;
import java.util.Arrays;

public class Main {

public static void main(String[] args) {
String[] poliArr = {"triangolo", "quadrato", "pentagono", "esagono"};
List<String> poligoni = Arrays.asList(poliArr);
String trovato = "";
ListIterator<String> iterator = poligoni.listIterator();
while (iterator.hasNext() && trovato.isEmpty()) {
String poligono = iterator.next();
if ("quadrato".equals(poligono)) {
trovato = poligono;
}
}
System.out.println(trovato);
}

}

Accedere ad un elemento di una lista con il metodo get e l'indice della posizione è efficiente soltanto con gli ArrayList e non con le LinkedList. Non sappiamo e non dobbiamo preoccuparci di quale implementazione sia ritornata da asList, quindi si usa un iteratore. Ora un codice del genere francamente non mi sembra più leggibile di prima, invece ho dovuto introdurre una riga in più ed esplicitare un controllo in più nell'if (c'è un and con due condizioni).

Vediamo ora cosa esiste in Java da qualche versione, le famose lambda che a mio parare (e non solo mio) sono molto eleganti.

package com.byteliberi;
import java.util.Arrays;
import java.util.List;

public class Main {

public static void main(String[] args) {
String[] poliArr = {"triangolo", "quadrato", "pentagono", "esagono"};
List<String> poligoni = Arrays.asList(poliArr);
String trovato = poligoni.stream()
.filter(poligono -> "quadrato".equals(poligono))
.findFirst().orElse(null);
assert(trovato != null);
System.out.println(trovato);
}
}

In questo modo non si deve neppure ricorrere all'uso di un ciclo e si sfrutta una "novità" (anche se è comparsa ormai diversi anni fa, con Java 8) che è la lambda. Questa mi sembra di gran lunga la strada più elegante, ma non la più comoda, confesso che trovo quel break semplicemente comodo.

Oggi credo che discussioni su se sia meglio usare un for o un while lascino il tempo che trovano e che i programmatori che discutono, per non dire litigano su queste cose probabilmente hanno una visione troppo ristretta e manierista del mestiere. Credo che gli elementi migliori debbano avere una visione d'insieme e che questi dettagli implementativi non valgano la pena di essere indagati ulteriormente, se non in sede accademica. Credo inoltre che si lavori assieme e si possa lavorare assieme introducendo un elemento di tolleranza verso lo stile degli altri e di rispetto delle conclusioni degli altri, anche quando non coincidono con le nostre. Lavorare assieme è molto difficile perché gli elementi che entrano in gioco non sono soltanto di natura tecnica, si parla sempre di più di competenze trasversali e discutere su un for o un while in azienda è qualcosa che non dovrebbe succedere.

Java mi piace più di altri linguaggi, anche se oggi non è più il mio solo linguaggio di riferimento, perché è molto potente e permette di superare questi vecchie, inutili diatribe.